Vivan Campbell, breve presentazione

Credo che spetti un posto a questo chitarrista Heavy Metal che negli anni ’80 ’90 ha militato nella band di Ronnie James Dio, Whitesnake, Def Leppard e tante altre collaborazioni. Pensate solo che quando R.J.Dio lo chiamò nella sua band, aveva appena 19 anni e venne considerato già un talento all’epoca! Basti vedere “Dio-Live in Holland” e notare come i suoi soli sono taglienti e potenti almeno per quei tempi.

Ecco qualche stralcio sull’esperienza fatta nella band di Dio: “Anche quando ero nella band con Ronnie, tanti anni fa, non abbiamo mai avuto grandi rapport oltre la musica. Eravamo on stage insieme, registravamo e scrivevamo musica insieme…era una strana relazione tra noi. Ci sono stati un sacco di fraintendimenti e poca comunicazione fra noi, io credo fosse un problema generazionale. Ronnie era più vecchio di me e penso che avesse molta difficoltà a comunicare con me. Molte persone hanno creduto per anni che sia stato io a lasciare la band, cosa non vera. Sono stato licenziato, non avrei mai volute uscire dalla band di Dio. Non avevo ragioni per contattarlo dopo essere stato licenziato, non l’ho nemmeno mai più visto né ho più parlato con lui. Lui, a sua volta, non mi ha mai contattato. Sono molto fiero dei dischi che abbiamo registrato insieme, ma non si può cambiare il passato, bisogna guardare avanti.”
 
Diego Romero, giornalista web
 

Edward Lodewijk, detto Eddie van Halen

 

Eddie_Van_Halen Edward Lodewijk, detto Eddie van Halen, nasce ad Amsterdam, il 26 gennaio del 1955. Chitarrista e compositore olandese, ormai statunitense d’adozione, è il leader dello storico gruppo rock omonimo, definito come uno dei più grandi di sempre. Al suo nome è accostata la tecnica chitarristica del “tapping”, di cui si dice sia stato l’inventore. In realtà, il bravo chitarrista l’ha perfezionata, facendola diventare una parte fondamentale del rock in genere e di tutti quegli assolo di chitarra che si dicono comunemente “rock”, “hard rock” ed “heavy metal”, dando al “numero”, per così dire, anche dei fondamenti armonici.

 

Nella famiglia van Halen la musica è qualcosa di più di un semplice hobby. Sin dai tempi di Nimega, città dei Paesi Bassi nella quale il piccolo Eddie vive fino all’età di sette anni, nella loro casa si sentono suonare diversi strumenti. Il padre, tra l’altro, che alleva praticamente da solo tutti i suoi figli, è un buon musicista jazz. Il futuro leader dei Van Halen comincia dal pianoforte, si accosta alla batteria ma è all’età di dodici anni incontra il suo grande amore: la chitarra. È il fratello maggiore Alex a fargliene dono. Questi, al momento di formare il primo gruppo, passa alla batteria, mentre il terzo figlio dei van Halen si dà da fare come tecnico.

Nel 1962 si trasferiscono negli Usa, a Pasadena. I futuri fratelli Van Halen apprendono a piene mani da gruppi come i Beatles e i Led Zeppelin. Tuttavia, di grande ispirazione per Eddie si rivelano i Cream di Eric Clapton e, soprattutto, il modo di suonare di un altro grande della chitarra, Jimmy Page. Si racconta che il chitarrista dei futuri Van Halen abbia “creato”, per così dire, il tapping, proprio durante lo studio di un brano di Page. Non riuscendo a farlo proprio, avrebbe cominciato a battere con entrambe le mani sulla tastiera della chitarra, ottenendo quella serie di intervalli ampi e febbrili, di cui si dice che il musicista olandese sia stato l’inventore. In verità, come già detto, esempi di tapping, benché in forma differente, si hanno già nel secolo XIX, come nel Capriccio n. 24 del grande Niccolò Paganini. Barney Kessel, jazzista straordinario, ne dà un saggio in alcune sue esibizioni dal vivo, datate anni ’60. Stessa cosa avrebbe fatto il chitarrista dei Genesis Steve Hackett, nel brano “Dancing With The Moonlit Knight”.

 Ad ogni modo, è solo intorno al 1975, dopo l’incontro con il bassista Michael Anthony e con il cantante David Lee Roth, che nasce un vero e proprio gruppo. Da principio, si chiama “Mammoth”, mentre sarebbe stato solo successivamente, in occasione del loro primo contratto, che si sarebbero dati il nome di “Van Halen”. A scoprirli, è il bassista dei Kiss, Gene Simmons. Questi li mette in contatto con la famosa casa Warner. Nel 1978 esce il loro primo album, ad oggi il più bello della storia della band. Si intitola semplicemente “Van Halen”, e contiene alcuni dei brani che hanno reso celebre il chitarrista Eddie, come “Eruption”, nel quale il tapping la fa da padrone.

 

Il successo è istantaneo. Lo stile innovativo, il talento di Eddie e la grande capacità da frontman di Roth, carismatico e vero animale da palcoscenico, si rivelano vincenti.

 

L’anno dopo pubblicano l’album “II”, il quale contiene il singolo di successo “Dance the night away”, mentre è del 1980 il loro album meno commerciale, ma molto sperimentale: “Women and children First”. Quest’ultimo lavoro contiene un altro singolo molto apprezzato, “And the cradle rock”.

 

Nel 1981 Eddie Van Halen sposa l’attrice Valerie Bertinelli, dalla quale ha un figlio nel 1991, che chiama, in onore del grande compositore austriaco Mozart, Wolfgang.

 

Nel 1983, a conferma del loro successo, i Van Halen si guadagnano una voce sul Guinness dei Primati per l’apparizione più pagata nella storia (almeno fino agli anni ’90). All’US Festival, il cachet dei Van Halen è di 1 milione di dollari. Quello stesso anno però il produttore della Warner ed Eddie litigano e decidono di separarsi. Il chitarrista e leader della band vuole più indipendenza nella composizione e dà vita, proprio per questo, ai “5150 Studios”, sede di tutti gli altri album dei Van Halen. La scelta si rivela azzeccata e nel 1984 esce l’album “1984”, l’unico in grado di avvicinarsi al successo del loro disco d’esordio. Qui, Eddie suona anche le tastiere e il loro singolo, “Jump”, in breve tempo balza in testa alle classifiche.

 

All’apice del successo però il cantante Dave “Diamond” Roth lascia la band, per dedicarsi alla propria carriera da solista. Nel 1985, la scelta del nuovo cantante ricade su Sammy Hagar, proveniente dai Montrose. Il nuovo sodalizio dura undici anni. Il loro primo album di questo periodo si chiama come gli studios appena nati: “5150”, datato 1986. È il disco più venduto dell’era Hagar ed è anche il primo album a raggiungere la prima posizione in classifica, almeno negli Usa.

 

Escono “Why Can’t This Be Love, OU812” nel 1988 e “When It’s Love”, ma è solo con “For Unlawful Carnal Knowledge”, nel 1991, che la band torna sulla cresta dell’onda. Questo disco, è l’unico che permette alla band di Eddie Van Halen di aggiudicarsi dei premi, come il “Grammy Award” per il migliore album Hard Rock dell’anno, oltre al riconoscimento di miglior video datogli dal canale MTV per il singolo “Right Now”. Di questo periodo è anche il loro unico disco live.

 

Nel 1996 arriva un nuovo cambio. Mentre la band registra la colonna sonora del film “Twister”, il cantante Sammy Hagar viene escluso dai lavori. Due anni dopo, viene scelto Gary Cherone, proveniente dagli Extreme. La scelta non si rivela vincente. L’album “Van Halen 3”, sperimentale, scontenta i fan, vendendo di meno dei precedenti. Di lì a poco il gruppo si scioglie, dopo un concerto tenuto alle Hawaii, anche a causa dei problemi di salute di Edward Van Halen.

 

Si capisce ben presto che senza un frontman di grande livello la strada per ritornare in vetta è piuttosto dura. Nel 1996 allora, il gruppo cerca di riavere il suo cantante storico, David Lee Roth, che ritorna in un loro lavoro con un suo contributo vocale, comparendo in due brani della raccolta “The Best of Van Halen, Vol. 1”. Ma i litigi riprendono e il gruppo non riesce a ricomporsi.

Passano diversi anni, fino a che non si riprova con Hagar, richiamato nel 2003 per l’album “The Best of Both Worlds”, una raccolta di successi con l’aggiunta di tre nuovi inediti con Hagar alla voce.

 

Sembra la strada giusta, e il tour 2004, con Hagar in prima linea, si rivela positivo, dando alle casse della band oltre 55 milioni di dollari. Tuttavia, è proprio in questi anni che Eddie comincia ad avere seri problemi con l’alcol, cosa che causa anche la definitiva uscita di scena di Hagar.

 

Nel 2006, il bassista Michael Anthony viene cacciato dal gruppo. Al suo posto arriva il figlio di Eddie, Wolfgang Van Halen. Inseriti nella Hall of Fame nel 2007, i Van Halen annunciano proprio in quell’anno che il loro leader si trova in un centro, per riabilitarsi dalla dipendenza dall’alcol. Quello stesso anno, il chitarrista e la moglie divorziano definitivamente.

 

Ad oggi i Van Halen sono una delle cinque band rock di sempre, ad aver composto più di un album registrato in studio che è riuscito a vendere oltre 10 milioni di copie negli Usa. Mentre Eddie Van Halen è considerato dalla rivista Rolling Stone alla posizione numero 70, in una classifica che comprende 100 tra i migliori chitarristi della storia. Inoltre, lo storico giornale ha dichiarato l’album d’esordio che porta lo stesso nome della band, tra i migliori 500 di sempre.

Ricky dei New Trolls

Ricky Belloni presenta Rock-in heaven

 Ricky Belloni, chitarrista e voce solista dei New Troll, oggi mi parla a nome dei compagni e ci racconta. Lo affiancano Gianni Belleno alla chitarra, basso, batteria e voce, autentico membro fondatore del gruppo originale, con Giorgio Usai, tastierista e vocalist. Ci sono anche Andrea Cervetto, basso, chitarra e voce e Alex Polifrone, batteria e voce, due amici di lunghissima data. Mi piace aggiungere, dopo averli sentiti dal vivo, che hanno saputo evolversi in modo straordinario e che sono magnifici!

Mi spieghi da dove salta fuori il nome?
Mito New Trolls ?l nome del gruppo sopravvissuto a una delle venti scissioni che ci sono state. Abbiamo cambiato pelle tante volte, sono successe mille cose nella nostra vita ma ora siamo qui e usiamo il richiamo del nome antico della band a buona memoria. Un pezzetto di una delle scissioni si era fregiato del nome originale, ma ora abbiamo vinto la causa. Esiste un sito internet che deve ancora essere aggiornato ma ormai questo nome è soltanto nostro. Del gruppo originale, nato nel 1967, siamo in tre discendenti e facciamo tutti i pezzi che abbiamo sempre fatto. Mi riferisco a me e a Gianni Belleni, che suona batteria, basso, chitarra e canta e ad Andrea Cervetto alla chitarra, al basso e canta. Alex Polifrone suona la batteria ed è anche musicista del gruppo TGP.

Chi sono i TGP?
TGP, acronimo di The Global Performance, un gruppo musicale con dei progetti: coro gospel con cinque musicisti per proporre il nuovo gospel contemporaneo da confrontare a quello tradizionale. Il TGP propone brani molto moderni ma con una vocalità gospel. Noi rientriamo in questo progetto perch?oro si sono avvicinati alla nostra musica, molto corale, perchè secondo loro si avvicina al loro genere. Noi siamo sempre stati molto vocali e, con un coro di 25 persone, i nostri brani diventano più interessanti. Poi abbiamo aggiunto degli inserti che non esistevano degli arrangiamenti dei nostri brani.

Come vi presentate al pubblico?
Lo spettacolo inizia con loro, che propongono alcuni brani del gospel contemporaneo. Poi entreremo noi in un loro brano, in cui ci inseriremo e infine facciamo i nostri pezzi, in cui loro non possono interagire perchè non è il loro genere. E poi faremo un gran finale.

Trovi meglio lavorare con altri sullo stesso palco?
E’ sempre interessante interagire con altre entità. Si rischia di chiudersi nel proprio ghetto, a lavorare sempre soli, mentre invece altre persone ti possono dare stimoli diversi. E cresci. Nell’ambito musicale non ci si ferma mai, anche se non ne avremmo bisogno. Noi siamo un cantagruppo, abbiamo scritto canzoni per altri, come Mina, Drupi, Anna Oxa e continuiamo a farlo perchè proprio gli stimoli ci aiutano e sono ben accetti.

Davvero? Per esempio?
Lavorare con altri fa venire voglia di creare di più perfino oltre noi stessi. Le collaborazioni, le aperture verso altri artisti che magari la pensano diverso da te, possono aprire soglie che non avevi mai pensato di varcare. Credo che sia il sale della vita musicale di qualsiasi artista o musicista. Chiudersi nelle torre d’avorio fa male: se non hai scambi di idee, non riesci a crescere. Da soli la strada finisce, prima o poi, a meno che tu non sia un genio universale.

Dopo queste due date milanesi che farete?
Questi due concerti hanno una funzione di apripista. D’estate saremo in tour e in prospettiva c’è la possibilità di un tour il prossimo inverno nei teatri.

Qual’ è la cosa bella del concerto Rock-in heaven?
E’ una sperimentazione: più arrivano gli applausi, più viene voglia di andare avanti. Noi abbiamo la fortuna di possedere uno zoccolo duro di fans, formatosi in tre generazioni e i più giovani si stupiscono. Arrivano e ci dicono: Credevamo che le vostre canzoni fossero carine e leggere? perchè nessuno sapeva veramente quello che davvero possiamo fare in concerto, con brani come Le Roi Soleil, Dancing, che sono delle suite molto variegate, senza seguire i soliti canoni delle canzoni. Oppure con Concerto Grosso. Rimangono un po’ stupiti.

Pensi che cambieranno ancora, i componenti della band?
A questo punto ci sentiamo consolidati. Per fare musica in un gruppo bisogna essere, oltre che tutto il resto, delle belle e brave persone. Per convivere, capisci? E adesso siamo come in un nirvana, stiamo bene, usciamo assieme; se ti vedi solo per fare i concerti vuol dire che c’è qualcosa che non va.

Cosa vorreste fare d’altro?
In questo momento ci piacerebbe andare all’estero, nei Paesi dove non ci hanno mai conosciuto veramente cioè l’est: Russia, Ucraina, anche perchè il nostro manager viene da quelle parti. Un nostro brano, Carezza della sera, è stato rifatto in modo più punkeggiante e cerchiamo di pubblicarlo in Germania, sperando di avere un buon riscontro e magari richieste di concerti live. Il nostro lavoro fare canzoni, registrarle, fare concerti. Tutto quello che si può fare per ampliare i propri confini è ben accetto.

Il rock bussa con Portera e Parisi

(A cura di Diego Romero, blogger)

Ricky Portera, il 27 Maggio esce il nuovo album “Fottili”

La rete annuncia un grande ritorno. A distanza di 7 anni dalla sua ultima pubblicazione si ripresenta sul panorama musicale internazionale Ricky Portera un artista
straordinario nella sua completezza che ha per lunghi anni  calcato i palchi con il grande Lucio Dalla. Un mito della chitarra per genialità ed espressività , che ha  saputo  in questo nuovo lavoro dal titolo “Fottili” confezionare e realizzare sapientemente un progetto ambizioso. La sua voce particolare, miscelata ad arrangiamenti calibrati, non possono passare inosservati anche per la squisitezza dei testi e dei suoi assoli sempre sopra le righe. Ospiti importanti hanno dato il loro  prezioso contributo, Gaetano Curreri , PierDavide Carone, Pino Scotto, Andrea Innesto (Cucchia), Claudio “Gallo “ Gollinelli…. solo per citarne alcuni. La produzione discografica è a cura di Beppe Aleo per Videoradio.

Portera

In uscita il 27 Maggio!

Novità anche per Mimmo Parisi, rockantautore e chitarrista ispirato. Vale la pena ricordare che è stato proprio big Ricky uno dei miti di Parisi, e lo è ancora, ovviamente. Mimmo Parisi, chitarrista di notevole sensibilità e di carattere, unisce una grande melodicità ad una tecnica sempre in evoluzione e fa del suo strumento un efficace mezzo di comunicazione emozionale. Ha fondato in passato alcune band, collaborando con diversi altri musicisti. E’ appassionato non solo della sei corde, che comunque funziona da base quasi in tutte le sue proposte compositive, ma anche, e non poteva essere diversamente per uno che ha iniziato prestissimo a comporre, dei più grandi cantautori italiani, da Ron a Finardi, da De Gregori a Venditti, da Paola Turci a Loredana Bertè e, tutti i grandi chansonnier francesi passando, ovviamente, dal cantautorato mondiale che ha fatto e fa uso del linguaggio rock.


L’ultimo suo album si chiama “Et c’est passé” ed è ascoltabile, con possibilità aggiuntiva del free download per chi lo desidera, qui: http://www.jamendo.com/it/list/a133344/et-c-est-passe

 

 

Gli “Heroes” ci sono ancora

(Presentazione e selezione degli aggiornamenti dal web a cura di Diego Romero, giornalista freelance)
Si chiama “Heroes”, il nuovo singolo di Gianluigi “Cabo” Cavallo, voce dei Litfiba dal 2000 al 2006 (4 dischi d’oro, oltre 200.000 copie vendute). Il titolo è tutto un programma e potrebbe essere, senza modestia paventata, un segno verbale autocelebrativo. Eroi lo siamo del resto tutti. Di alcuni sono raccontate le gesta in forma pubblica, di altri in forma privata e minimalista, della serie che tu sia bravo lo sa il salumiere, il barbiere e l’orologiaio sotto casa, ah, anche la nonna. Cabo Cavallo è indubbiamente uno degli artisti più sottovalutati di questa Italia piagnona. Comunque il videoclip di “Heroes” è stato inaspettatamente pubblicato su Youtube da meno di una settimana rompendo un silenzio discografico che durava da 7 anni. La reinterpretazione del classico di David Bowie, un omaggio al Duca Bianco in occasione del suo sessantasettesimo compleanno, è dedicata a tutti i fans che in questi anni di assenza dal palco hanno continuato a invocare a gran voce il ritorno dell’ex voce della rock band toscana.
Il primo singolo solista di Gianluigi Cavallo è dedicato a tutti quelli che sono rimasti legati ai suoi trascorsi artistici ed hanno continuato a seguirlo con affetto. Quella che da molti viene considerata la voce più bella del rock italiano del nuovo millennio, ha coinvolto nella registrazione del brano e nella realizzazione del video proprio loro: i suoi sostenitori, che elevati al ruolo di protagonisti, hanno suonato nel brano, preso parte alle riprese, ed inviato contributi video da tutta Italia, abbattendo le convenzionali barriere fra “artista” e “fan”.
Il brano è stato lanciato senza il supporto di nessuna radio, televisione o giornale, ma unicamente tramite una dedica postata sul suo profilo personale Facebook: “Vi Cercavo. Sempre. Ogni volta da sopra o sotto il palco, io vi cercavo e …Voi c’eravate. […] Eravate lì per cantare, urlare, saltare, imprecare, sfogare, piangere, ridere, danzare, impazzire, vivere, morire, rinascere […] Grazie di ogni foto, video, intervista, post, pensiero che mi continuate a dedicare, nonostante il mio silenzio musicale. […] Questo è per Voi“.
Spinto unicamente dall’onda del passaparola, Heroes ha raggiunto 6000 visualizzazioni su Youtube, raccogliendo commenti entusiasti sui social network; considerata la natura del progetto, sono risultati che “emozionano e colpiscono, ancor di più se si pensa che il progetto è nato soltanto dall’unione di un’affiatata squadra, unita da cuore e passione”.
A proposito di uscite recenti, aggiorniamo anche l’attività di Mimmo Parisi, rockantautore appassionato, il quale ha pubblicato il videoclip di “Ma tutto cambia”, brano d’atmosfera caratterizzato dal suo stile che fa uso, nel caso delle ballad, di chitarre fingerpicking e orchestrazione campionata.
Qui i video di Cabo Gianluigi Cavallo e Mimmo Parisi:

https://www.youtube.com/watch?v=TvK0D9EjaIM

 

Maurizio “MorrizZ” Borghi tra Bullet & Backyardbabies

A cura di Maurizio “MorrizZ” Borghi
 
 
 
Il gelato venerdì sera bolognese è infiammato dal rock n’roll scandinavo al Sottotetto, club rurale  infestato di rocker pronti a inneggiare ai Backyard Babies, freschi del loro ultimo, omonimo lavoro. Il locale è accogliente e caldissimo, e stasera è colmato nella sua interezza da un pubblico entusiasta che si dimostrerà disposto ad acclamare anche gli opener. Il palco altissimo e stretto in profondità è sicuramente la particolarità del locale: tutti però godranno di ottima visibilità vista la statura fisica degli headliner… 
 
Si inizia con i BULLET…
 

Immaginiamo che l’esistenza dei Bullet sia ignorata quasi dalla totalità del locale, considerata soprattutto la scelta infelice del nome, che rende quasi impossibile reperire anche una biografia tramite Google. Gli svedesi saltano sul palco in una tenuta completamente anacronistica: capelli lunghissimi, pantaloni e giacche di pelle su petto nudo, sneakers da basket e movenze che li fanno apparire come appena usciti da Guitar Hero Rock The ’80. Fa contrasto il cantante, un ricciolone tutto tondo uguale al Pierino post-Vitali con bracciali borchiati, esilarante alla vista ma con una voce al vetriolo: potrebbero esserci loro al posto degli Airbourne, in una rilettura degli AC/DC festaiola e spruzzata di speed power ottantiano. I presenti cadono vittime in pochi minuti, e rispondono a gran voce a piccole perle come “Dusk Till Dawn”, “Turn It Up Loud”, “Rambling Man” e le altre irresistibili canzoni della setlist. Che sorpresa!

 

playlist artwork

 presenta Mimmo Parisi

Link: http://www.youtube.com/watch?v=rakuoJZwoCE

 

…E si finisce coi BACKYARD BABIES

Chi scrive non si aspettava molto dai Backyard Babies. In tutta onestà il gruppo, pur mantenendosi su standard elevati, ha calato (come è naturale che sia in anni di attività) progressivamente di intensità e potenza, adagiandosi su livelli di professionalità elevati ma tralasciando il “fattore sballo”. Perché il capolavoro “Total 13” faceva respirare una pericolosità autodistruttiva simile ai capolavori come “Appetite For Destruction”, col tempo diluita in grinta e urgenza verso altri lidi. Questa la fotografia che avevamo in mente… almeno fino a questa sera: sin dall’entrata, un Johan incazzato a morte con la spia ci fa intuire che la serata promette scintille e, sorpassando le più rosee aspettative, così è stato. Con un Nicke mai così (stra)fatto, magrissimo ed emaciato, pronto ad appoggiarsi alle casse o al locale durante un minuto di pausa, e un Dregen schizzato e nervoso come ai vecchi tempi, subito a petto nudo, l’aggressività dei Backyard si mangia problemi tecnici e calura insopportabile del locale, trasportando tutti i presenti su un ideale Sunset Boulevard di Stoccolma. La scaletta contiene molto materiale dell’ultimo self-titled: le varie “Degenerated”, “Fuck Off And Die”, “Idiots” e “Saved By The Bell” sono rese però in una versione grintosa e sono supportate da un pubblico incredibile e su di giri, che non manca di finire sul palco e causare grattacapi ai roadie. Da contorno il meglio della discografia degli Ssvedesi, che tra una “People Like People Like People Like Us” e una “Minus Celsius” smuovono anche le fondamenta del locale. Il climax si raggiunge, come al solito, quando le sirene si accendono e vengono eseguite, una di seguito all’altra, “Highlights” e “Look At You”, dopo le quali qualunque brano del quartetto avrebbe sfigurato. Felici di rimangiarci i preconcetti. Bentornati Backyard!

Qualche aggiornamento sui One Direction

 
 
 
(A cura di Alex, blogger e divulgatore) 

Guardando il video ufficiale di “You & I” dei One Direction, diretto da Ben Winston, abbiamo immaginato che i ragazzi volessero raccontarci una storia: quella della loro amicizia, del legame creatosi in questi anni insieme.

Guarda il video: You & I dei One Direction

Il (meritato!) periodo di pausa che ha preceduto l’avvio del Where We Are Tour – ha alimentato tra alcuni fan, il sospetto che ci fossero delle tensioni nel gruppo. Nulla di più falso!

…e sul palco di San Siro a Milano e all’Olimpico di Torino ne avrete una conferma definitiva. 

1D molo

YOU & I

C’è una storia che percorre il molo di Clevedon.

Una storia che non teme l’erosione della salsedine, che non sbiadisce al sole, che non muta in base al vento.

E’ la storia di un’amicizia, di quelle che si aggrappano all’anima e che ti lasciano un’emozione che non se ne va.

Puoi pensare ad alta voce, percorrere nuove rotte, stupirti dello scorrere del tempo, lei sarà sempre lì. Immutata.

La storia che percorre il molo di Clevedon ha come protagonisti ragazzi che ancora prima d’incontrarsi, hanno permesso alle loro passioni di farlo. Le stesse che li hanno portati sul palco, a raccontarsi su quelle scale, ridere, piangere di gioia e scoprirsi il più grande gruppo sulla scena pop Mondiale.

1D scale

La storia che viene raccontata sul molo di Clevedon ci insegna che l’amicizia è il faro più luminoso, non alterna mai luce al buio, ma brilla immutato avvolgendo più navi con il suo lucente raggio.

Questa è la storia di Harry, Louis, Liam, Niall, Zayn: qualunque siano quelle che leggerete, che vi racconteranno, quella che percorre il molo di Clevedon è l’unica scritta dalla Realtà.

1D mani

Quasi un anno fa: Bonjovi a san Siro

(Presentazione di Mimmo Parisi, cantautore)
A momenti è passato l’anno. Era il 29 giugno del 2013.
Ricordiamo il concerto dei grandissimi Bonjovi in Italia attraverso
le parole di Luca Dondoni della Stampa.
La scaletta è una carrellata attraverso trent’anni di rock

 San Siro con cinquantamila persone affamate di musica è sempre un bel vedere e per questo sabato 29 giugno 2013 che dovrebbe essere estivo, l’adrenalina dei presenti ha creato quel calore che il clima non regala.

“You Give Love a Bad Name” fa alzare le mani a tutti e non c’è bisogno del pezzo che segue, “Raise Your Hands” (trad.: alzate le mani), per vedere migliaia di braccia che vanno a tempo con la chitarra perfetta del canadese Phil X a suo agio nei panni del solista e capace con le sue svisate di non farci disperare per la mancanza del titolare. Prima di intonare “Runaway” Jon dice di “allacciare le cinture” perché le tre ore di musica che ci aspettano saranno da perdere la testa. Va detto che oltre alla band a far la parte del leone è una scenografia che mostra fronte palco il muso di una Buick degli anni cinquanta azzurra e con i fanaloni che si accendono e si spengono a ritmo. Appena sopra il muso dell’auto uno schermo riproduce il parabrezza e gli specchietti esterni così, a seconda dei fondali che vengono proiettati, il mezzo si muove tra deserti e boschi, highway e strade di quegli Stati Uniti che questo italoamericano ama alla follia. “Gli States sono la mia terra – ha sempre dichiarato il bandleader – il New Jersey la mia casa e appena posso me li porto addosso”. Detto, fatto e infatti a San Siro Jon Bon Jovi indossava un giubbotto di pelle con stampata sopra la bandiera USA.

“Born to be my babe” e “It’s My Life” si inseguono non senza che il batterista Tico Torres si diverta a pestare duro sui tamburi che a fine serata dovranno essere sostituti visti i bicipiti che questo artista mostra tonici e soprattutto enormi. “Because We Can” è il primo singolo dall’ultimo album “What about now” e Jon ringrazia per l’accoglienza che gli è stata tributata nel nostro Paese. Per la verità non si registrano vendite stratosferiche ma da noi i Bon Jovi hanno sempre potuto contare su uno zoccolo duro di fan che non solo comprano i dischi ma puntualmente ne acquistano i biglietti dei concerti. È proprio su “Because you can” che il pubblico si produce in una scenografia bellissima e commovente. Ogni persona del pubblico era dotata di un pezzo di plastica quadrato blu, rosso, bianco o con i colori della bandiera italiana. Ebbene il duro, il rocker Jon Bon Jovi alla fine della canzone si è fermato a guardare la gente che teneva alti i suoi fazzoletti di plastica formando il nome della band sulle curva di sinistra, quello della bandiera USA sulla curva di destra e, nel prato, una selva di bandierine italiane. “Non posso piangere come una femminuccia – ha detto il protagonista asciugandosi le lacrime – devo smetterla e continuare a suonare per voi. Però grazie, grazie davvero. Questa scenografia mi lascia senza fiato”.

“What About Now” stempera il clima e “We Got It Goin’ On” è subito seguita da “Keep the Faith” anche se prima di intonarla i complimenti di Jon e della band vanno alle ragazze italiane che “quando gridano sono meravigliose”. E le ragazze presenti al Meazza non aspettavano altro visto che si producono in un urlo che si sarà sentito sicuramente fino in Piazzale Lotto. Certo, fatevelo dire, i capelli di Jon Bongiovanni non sono più lunghi come agli esordi e la criniera cotonata ha lasciato il posto a un taglio corto, da bravo ragazzo. Tuttavia, il livello di sana cafonaggine che si respira a un concerto del gruppo raggiunge livelli siderali. Non si fa fatica a credere come la “pancia” del nostro e di tutti i paesi occidentali possa amare la band. I ragazzi suonano un rockettone sanguigno con voce, basso, chitarre e batteria e le tastiere a far la melodia di quando in quando. Gli “yeah babe”, i “come on make some noise” a volte gli “slap your ass” si sprecano, ma va bene così.

Dall’ultimo disco ancora una canzone e questa volta è la dolce “Amen” che l’artista dedica alla madre e a tutte le madri del mondo. Si riparte però con “In these arms” e il ritmo riprende il sopravvento con migliaia di accendini con le fiammelle accese. “Captain Crash & the Beauty Queen From Mars” è da appassionati veri anche perché fa parte del repertorio più nascosto del gruppo.

Su “We Weren’t Born to Follow” anche gli addetti alle luci del team Bon Jovi si scatenano e finalmente c’è modo di far godere il pubblico delle belle immagini proposte dai mega screen. L’american dream raccontato in centinaia, forse migliaia di canzoni in un concerto dei Bon Jovi è lì, a portata di mano. A vedere, applaudire, cantare con questi cinquantenni dai capelli perfettamente “coloured” e le facce abbronzate di chi non ha un problema nella vita ci sono decine e decine di famiglie con ragazzini al seguito. C’è il papà che racconta al figlio quanto siano stati belli gli anni ottanta. Ci sono mamme che accompagnano le figlie e raccontano come erano belli gli idoli della loro età e non quegli sgallettati alla One Direction buoni solo per portare il cagnolino al parco. Intanto fra una canzone del repertorio e l’altra Jon per questo tour ha deciso di fare qualche cover tipo “Rocking all over the world” di John Fogerty (scritta nel 1975 e cioè quando il leader dei Credence Clearwater Revival decise di fare dei dischi da solista )che tutti cantano come fosse l’ultima hit del momento. Bella la vibrazione che il pubblico di San Siro regala su “I’ll Sleep When I’m Dead” e grandi applausi quando Jon e David Bryan si calcano sulla testa dei cappellacci da cowboy.

I bicipiti di Tico Torres sembrano esplodere quando “Bad Medicine” fa urlare anche i ragazzi che vendono le bibite e il suono della batteria ti arriva dentro lo stomaco. È tempo di bis.

“Love si the only rule” lascia che Phil X si produca in assoli notevoli che si apprezzano mentre Jon decide di far felici le prime file e chi lo guarda negli schermi togliendosi “finalmente” il giubbotto per mostrare a sua volta una t-shirt armless. Il finalona ormai è vicino e mancano ancora quelle due o tre “bombe” che hanno fatto vendere milioni di copie, si sono impossessate delle prime posizioni delle charts. Jon e i ragazzi lo sanno e non se lo fanno dire due volte. Una via l’altra arrivano “Wanted dead or alive” ma prima Bongiovanni ammette che era da un po’ di tempo che non faceva un concerto che gli regalava così tante emozioni. Gli crediamo. “Era da qualche anno che non facevamo questa canzone – ammette il frontman – è una vostra richiesta ma ve lo meritate”. “Undivided” viene presentata così e a ruota segue “Have a nice Day” cantata a memoria per non parlare del pinnacolo di una carriera come “Livin’ on a prayer” che parte acustica e si sviluppa insieme ai suoni della band potente e precisa. Richiesta a gran voce è arrivata “Always”. E quando tutto sembrava finito, ancora un regalo di Jon e compagni: “This Ain’t a Love Song” che ha accompagnato la chiusura della festa, mandando tutti a letto contenti e felici.

(Mimmo Parisi è un cantautore e musicista italiano. Ha debuttato sulla scena musicale come chitarrista, compositore e singer nelle classiche band liceali, esordendo poi come solista nel 2013 con due album digitali. Il primo si intitola “Quando non 6 Totti o Ligabue” – http://www.rockit.it/mimmoparisi/album/quando-non-6-totti-o-ligabue/22553 – , il secondo, programmaticamente, “Non faccio prigionieri” – http://www.rockit.it/mimmoparisi/album/non-faccio-prigionieri/23768 – Una nota distintiva va al carattere particolare dei suoi testi, i quali sono a volte intimisti e riflessivi, a volte decisamente diretti e legati a uno stile originale di Combat Rock. La parte prettamente musicale, colorata dalla sua grintosa chitarra, attinge a stilemi in bilico tra il pop e l’hard rock.)