https://www.youtube.com/watch?v=TvK0D9EjaIM
Non è la vita che preoccupa, ma l'opinione che si ha di essa
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San Siro con cinquantamila persone affamate di musica è sempre un bel vedere e per questo sabato 29 giugno 2013 che dovrebbe essere estivo, l’adrenalina dei presenti ha creato quel calore che il clima non regala.
“You Give Love a Bad Name” fa alzare le mani a tutti e non c’è bisogno del pezzo che segue, “Raise Your Hands” (trad.: alzate le mani), per vedere migliaia di braccia che vanno a tempo con la chitarra perfetta del canadese Phil X a suo agio nei panni del solista e capace con le sue svisate di non farci disperare per la mancanza del titolare. Prima di intonare “Runaway” Jon dice di “allacciare le cinture” perché le tre ore di musica che ci aspettano saranno da perdere la testa. Va detto che oltre alla band a far la parte del leone è una scenografia che mostra fronte palco il muso di una Buick degli anni cinquanta azzurra e con i fanaloni che si accendono e si spengono a ritmo. Appena sopra il muso dell’auto uno schermo riproduce il parabrezza e gli specchietti esterni così, a seconda dei fondali che vengono proiettati, il mezzo si muove tra deserti e boschi, highway e strade di quegli Stati Uniti che questo italoamericano ama alla follia. “Gli States sono la mia terra – ha sempre dichiarato il bandleader – il New Jersey la mia casa e appena posso me li porto addosso”. Detto, fatto e infatti a San Siro Jon Bon Jovi indossava un giubbotto di pelle con stampata sopra la bandiera USA.
“Born to be my babe” e “It’s My Life” si inseguono non senza che il batterista Tico Torres si diverta a pestare duro sui tamburi che a fine serata dovranno essere sostituti visti i bicipiti che questo artista mostra tonici e soprattutto enormi. “Because We Can” è il primo singolo dall’ultimo album “What about now” e Jon ringrazia per l’accoglienza che gli è stata tributata nel nostro Paese. Per la verità non si registrano vendite stratosferiche ma da noi i Bon Jovi hanno sempre potuto contare su uno zoccolo duro di fan che non solo comprano i dischi ma puntualmente ne acquistano i biglietti dei concerti. È proprio su “Because you can” che il pubblico si produce in una scenografia bellissima e commovente. Ogni persona del pubblico era dotata di un pezzo di plastica quadrato blu, rosso, bianco o con i colori della bandiera italiana. Ebbene il duro, il rocker Jon Bon Jovi alla fine della canzone si è fermato a guardare la gente che teneva alti i suoi fazzoletti di plastica formando il nome della band sulle curva di sinistra, quello della bandiera USA sulla curva di destra e, nel prato, una selva di bandierine italiane. “Non posso piangere come una femminuccia – ha detto il protagonista asciugandosi le lacrime – devo smetterla e continuare a suonare per voi. Però grazie, grazie davvero. Questa scenografia mi lascia senza fiato”.
“What About Now” stempera il clima e “We Got It Goin’ On” è subito seguita da “Keep the Faith” anche se prima di intonarla i complimenti di Jon e della band vanno alle ragazze italiane che “quando gridano sono meravigliose”. E le ragazze presenti al Meazza non aspettavano altro visto che si producono in un urlo che si sarà sentito sicuramente fino in Piazzale Lotto. Certo, fatevelo dire, i capelli di Jon Bongiovanni non sono più lunghi come agli esordi e la criniera cotonata ha lasciato il posto a un taglio corto, da bravo ragazzo. Tuttavia, il livello di sana cafonaggine che si respira a un concerto del gruppo raggiunge livelli siderali. Non si fa fatica a credere come la “pancia” del nostro e di tutti i paesi occidentali possa amare la band. I ragazzi suonano un rockettone sanguigno con voce, basso, chitarre e batteria e le tastiere a far la melodia di quando in quando. Gli “yeah babe”, i “come on make some noise” a volte gli “slap your ass” si sprecano, ma va bene così.
Dall’ultimo disco ancora una canzone e questa volta è la dolce “Amen” che l’artista dedica alla madre e a tutte le madri del mondo. Si riparte però con “In these arms” e il ritmo riprende il sopravvento con migliaia di accendini con le fiammelle accese. “Captain Crash & the Beauty Queen From Mars” è da appassionati veri anche perché fa parte del repertorio più nascosto del gruppo.
Su “We Weren’t Born to Follow” anche gli addetti alle luci del team Bon Jovi si scatenano e finalmente c’è modo di far godere il pubblico delle belle immagini proposte dai mega screen. L’american dream raccontato in centinaia, forse migliaia di canzoni in un concerto dei Bon Jovi è lì, a portata di mano. A vedere, applaudire, cantare con questi cinquantenni dai capelli perfettamente “coloured” e le facce abbronzate di chi non ha un problema nella vita ci sono decine e decine di famiglie con ragazzini al seguito. C’è il papà che racconta al figlio quanto siano stati belli gli anni ottanta. Ci sono mamme che accompagnano le figlie e raccontano come erano belli gli idoli della loro età e non quegli sgallettati alla One Direction buoni solo per portare il cagnolino al parco. Intanto fra una canzone del repertorio e l’altra Jon per questo tour ha deciso di fare qualche cover tipo “Rocking all over the world” di John Fogerty (scritta nel 1975 e cioè quando il leader dei Credence Clearwater Revival decise di fare dei dischi da solista )che tutti cantano come fosse l’ultima hit del momento. Bella la vibrazione che il pubblico di San Siro regala su “I’ll Sleep When I’m Dead” e grandi applausi quando Jon e David Bryan si calcano sulla testa dei cappellacci da cowboy.
I bicipiti di Tico Torres sembrano esplodere quando “Bad Medicine” fa urlare anche i ragazzi che vendono le bibite e il suono della batteria ti arriva dentro lo stomaco. È tempo di bis.
“Love si the only rule” lascia che Phil X si produca in assoli notevoli che si apprezzano mentre Jon decide di far felici le prime file e chi lo guarda negli schermi togliendosi “finalmente” il giubbotto per mostrare a sua volta una t-shirt armless. Il finalona ormai è vicino e mancano ancora quelle due o tre “bombe” che hanno fatto vendere milioni di copie, si sono impossessate delle prime posizioni delle charts. Jon e i ragazzi lo sanno e non se lo fanno dire due volte. Una via l’altra arrivano “Wanted dead or alive” ma prima Bongiovanni ammette che era da un po’ di tempo che non faceva un concerto che gli regalava così tante emozioni. Gli crediamo. “Era da qualche anno che non facevamo questa canzone – ammette il frontman – è una vostra richiesta ma ve lo meritate”. “Undivided” viene presentata così e a ruota segue “Have a nice Day” cantata a memoria per non parlare del pinnacolo di una carriera come “Livin’ on a prayer” che parte acustica e si sviluppa insieme ai suoni della band potente e precisa. Richiesta a gran voce è arrivata “Always”. E quando tutto sembrava finito, ancora un regalo di Jon e compagni: “This Ain’t a Love Song” che ha accompagnato la chiusura della festa, mandando tutti a letto contenti e felici.
(Mimmo Parisi è un cantautore e musicista italiano. Ha debuttato sulla scena musicale come chitarrista, compositore e singer nelle classiche band liceali, esordendo poi come solista nel 2013 con due album digitali. Il primo si intitola “Quando non 6 Totti o Ligabue” – http://www.rockit.it/mimmoparisi/album/quando-non-6-totti-o-ligabue/22553 – , il secondo, programmaticamente, “Non faccio prigionieri” – http://www.rockit.it/mimmoparisi/album/non-faccio-prigionieri/23768 – Una nota distintiva va al carattere particolare dei suoi testi, i quali sono a volte intimisti e riflessivi, a volte decisamente diretti e legati a uno stile originale di Combat Rock. La parte prettamente musicale, colorata dalla sua grintosa chitarra, attinge a stilemi in bilico tra il pop e l’hard rock.)
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